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L’esperienza Inception.. dal punto di vista del testo

26 ottobre 2010

Uno dei motivi per cui Inception ha prodotto attenzione, curiosità, passione presso i suoi pubblici – e presso gli studiosi di comunicazione – è la irriducibile complessità del testo e le possibili strade interpretative che propone o – semplicemente – lascia aperte. Questo ha ovviamente un senso dal punto di vista delle audience, ma lo ha anche dal punto di vista della produzione autoriale dei testi. Ci sembra allora stimolante offrire qui gli spunti interpretativi proposti da Guido Vitiello, con cui questa discussione ha preso vita.

Che cos’ha, Inception, di tanto speciale? Poco, a prima vista.

Come gioco sui diversi livelli di consapevolezza e di visione, Existenz (1999) di David Cronenberg, che pure lo precede di dieci anni, sembra guardarlo da un futuro inarrivabile. Come avventura onirica in cui l’eroe deve vedersela con i suoi mostri interiori, se anche non vogliamo spingerci fino alle vette di David Lynch, basta tornare a Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry per trovare qualcosa di più vivo e immaginoso di un subconscio popolato di gang, sicari e sparatorie. Tra i tanti film sull’accesso alla mente come ultima frontiera del potere, Minority Report (2002) di Steven Spielberg offre una fantasia infinitamente più elaborata, per non parlare del seminale Brainstorm (1983) di Douglas Trumbull o di Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow. Se cerchiamo, poi, un film che sappia essere simultaneamente metafisico e d’azione, la trilogia di Matrix (1999-2003) dei fratelli Wachowski offre soluzioni ben più spettacolari. E ancora: tra i mind-game film, i film-rompicapo dove allo spettatore è chiesto di rimettere in ordine i frammenti di storia disseminati caoticamente da un narratore inaffidabile, lo stesso Christopher Nolan, con Memento (2000), aveva tentato un esperimento ben più audace e ambiguo. Quanto al versante fantascientifico, poi, Inception non si discosta poi molto dagli ormai abusati cliché cyberpunk dove il futuro si svolge tutto in metropoli asiatiche divise tra slums polverosi e grattacieli svettanti, ipertecnologia miniaturizzata e sordidi scantinati dove i grandi potentati hanno commercio con le gang criminali. Lo stesso apparato generatore di sogni, a ben vedere, è immaginato in modo così povero che riporta alla mente, più delle meraviglie di Total Recall (1999) di Paul Verhoeven, la cartapesta di Nirvana (1997) di Gabriele Salvatores.

Inception, a conti fatti, fa pensare a quegli scolaretti diligenti, di non eccelsi talenti, che raggiungono la sufficienza e anche più in tutte le materie ma in nessuna primeggiano. Eppure, appena sono uscito dalla sala, a quel senso d’impalpabile scontento che cala sullo spettatore quasi appagato (il veleno è tutto nel quasi) si accompagnava la confusa certezza di aver assistito a qualcosa di importante.

E dunque, di nuovo: che cos’ha, Inception, di tanto speciale?

La prima risposta l’avevo davanti agli occhi: il film di Nolan è tutte queste cose insieme – film d’azione, puzzle film, scenario fantascientifico e viaggio interiore, noir ipertecnologico e spy story – compresse in due fittissime ore e mezza. Ma oltre a ricapitolare una dozzina di generi e stili, Inception fa molte altre cose. A dieci anni da Fight Club (David Fincher, 1999) e Vanilla Sky (Cameron Crowe, 2001), per citare due casi celebri, consacra ulteriormente nel mainstream, grazie a un divo come Leonardo Di Caprio, un genere emergente ma ancora tutto sommato marginale: quello del film-rompicapo, appunto (lo stesso Memento, peraltro, era una produzione indipendente). Inoltre si propone fin da subito, e finora con successo, come cult movie – operazione, quella del cult programmatico, spesso fallita o riuscita solo a metà per un sospetto eccesso di ruffianeria, da Trainspotting (Danny Boyle, 1996) a Donnie Darko (Richard Kelly, 2001).

Soprattutto, Inception guarda oltre il cinema in almeno tre modi diversi.

Il livello più banale è quello metacinematografico in senso stretto, di riflessione sul dispositivo stesso del film: in questo caso si stabilisce l’equiparazione tra la visione cinematografica e i “sogni guidati” della tradizione tibetana o tolteca, così come tra gli universi diegetici, chiusi e perfetti, della finzione filmica e i “mondi possibili” che la moderna narratologia ha preso in prestito dalla logica modale.

A un secondo livello, più interessante, Inception dialoga con altre forme espressive. Occhieggia insistentemente al mondo del video-game – fatto di “vite” e di livelli, ciascuno dei quali ha i suoi nemici e i suoi talismani – come già avevano fatto, tra gli altri, Il quinto elemento (Luc Besson, 1997) e lo stesso Existenz. Forse diventerà anche un videogioco, come ha fatto trapelare lo stesso Nolan. Soprattutto, Inception è il pendant cinematografico dei labirinti simbolici e narrativi di serie tv come Lost. Verrebbe da dire che, se un tempo erano le serie tv a ispirarsi ai film e a fornirne una versione per così dire diluita, oggi al contrario i film cercano di essere delle serie tv in forma compressa. La ricchezza pressoché inesauribile di Mulholland Dr. (David Lynch, 2001) deriva anche dal fatto che il film nasce come episodio pilota di una serie tv, che Lynch trasformò in film compiuto quando il network americano Abc bocciò il suo progetto. Inception – in questo caso per scelta e non per necessità – è anch’esso una serie tv “bonsai”, e da ciò deriva un’accumulazione di temi e spunti che si traduce, in ultimo, in concitazione e affanno.

Infine, il film di Nolan (in questo non è il solo) guarda oltre lo spettatore cinematografico e le sue abitudini di visione, perfino oltre lo spettatore ludico e ironico della Terza Hollywood. Sarebbe eccessivo sostenere che il passaggio in sala ha ormai un mero valore promozionale per l’uscita in dvd, ma è certo che Inception contempla almeno due tipi diversi di visione: quella immersiva nel “cubo opaco” del cinema, e quella analitica e casalinga in dvd. Sul supporto elettronico la visione si avvicina alla lettura e, per dirla con il Parsifal, “il tempo diventa spazio”: il testo non è più un ottovolante che trascina lo spettatore in apnea dall’inizio alla fine di un percorso narrativo tutto sbalzi e precipizi, ma un mondo che si offre, docile, a essere esplorato in ogni direzione, che si lascia percorrere in avanti e indietro o immortalare nel fermo immagine a caccia di dettagli nascosti… per poi, chiaramente, ritrovarsi a parlarne in quel “verminaio di glossatori” (così Marinetti su Dante) che sono ormai i forum di discussione online. Inception è un film che si offre allo studio, ma non solo a quello dei fan. Anzi, si candida a formar parte della poco studiata famiglia dei “cult accademici”: i film che, tra i mille diversi pubblici a cui si rivolgono, lanciano l’amo anche a quello ristretto ma a suo modo influente dei cultori dei film studies. Lars von Trier e Michael Haneke sono maestri in questo ammiccamento teorico spesso furbesco, e Nolan non è da meno. Lo studioso di cinema, infatti, va in brodo di giuggiole quando può ritrovare, messe in bella mostra, tutte le sue amusettes teoriche: il discorso sui generi e le loro ibridazioni, la struttura temporale del racconto, la riflessione sullo statuto ontologico dell’immagine filmica, l’eterna ruminazione narratologica e filosofica sull’autore (chi sogna chi, in Inception?), e via discutendo in una infinita – e utilissima – palestra ermeneutica.

Ecco, in breve, cos’ha di speciale Inception. Che un’idea, nella mia mente, l’ha impiantata senz’altro con successo, senza bisogno di intrufolarsi nei miei sogni: l’idea che il film di Nolan, con tutte le sue approssimazioni e imperfezioni, sia impegnato in quelle che potremmo chiamare prove tecniche di “opera d’arte dell’avvenire”, per usare l’antica formula wagneriana. E che quest’opera d’arte dell’avvenire – a un tempo colta e popolare, enciclopedica e feuilletonesca, mistica ed enigmistica, politica e onirica – tenda ormai con tutte le sue forze al traguardo supremo dell’opera-mondo, dell’epica onnicomprensiva, del grand récit post-ideologico, in ultimo del testo sacro secolare: Biblia pauperum per le anime semplici e illetterate, foresta di simboli per la ruminazione infinita dei chierici.

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  1. 19 novembre 2010 15:46

    Completamente d’accordo con il prof. Vitiello. Inception è prima di tutto un’esperienza che ti resta dentro, fa riflettere e costringe a un’analisi che va oltre la semplice critica cinematografica, o le conversazioni sul “de gustibus”. Mai avevo notato così tanto confabulare durante e dopo la proiezione del film, e mai io stesso ero uscito dalla sala così soddisfatto e scioccato allo stesso tempo. Un appagamento solo parziale, però, che mi ha immancabilmente portato sui forum e i blog di discussione solo poche ore dopo.
    Davvero, come dice Romana Andò, una vera e propria esperienza, che riesce ad essere assolutamente onirica, forse più nell’effetto che nella forma: uscito dal cinema mi è sembrato di risvegliarmi da qualcosa di “altro”, lontano e alieno dalla vita reale e dal mio contesto.E mai lo scarto è stato così forte.
    Che Inception abbia recuperato la vera essenza del cinema? La finzione pura, il sogno-rompicapo in medias res (perchè non ci ricordiamo mai come è cominciato un sogno, e in questo senso l’inizio del film è geniale), quel qualcosa che deve necessariamente essere “fuori”, per restituirci emozioni e sensazioni altrimenti impossibili da provare “dentro”?..
    L’idea è stata innestata, e d’ora in poi prevedo molte imitazioni del vero CULT di Nolan.

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